Le mal du siècle: fino a quando si possono trattenere i pensieri?
Il parere dello spettatore attento: recensione a cura di Agata Saglia
“Fino a quando si possono trattenere i pensieri?”. Nei momenti in cui gli occhi non vedono una via d’uscita, in tanti finiscono per farsi questa domanda. Lo stesso fa Franz Woyzeck, protagonista dello spettacolo “Le mal du siècle”, regia di Mario Mascitelli, andato in scena al Teatro del Cerchio il 29 e 30 marzo.
Primo studio sull’opera “Woyzeck” di Georg Büchner, scritta tra il 1836 e il 1837 ma rimasta incompiuta per la morte dell’autore, “Le mal du siècle” è il risultato di un lavoro di selezione e riscrittura del testo originale che affronta le tematiche, purtroppo attuali, della violenza sulle donne e dell’omofobia.
Sulla scena prende vita la storia drammatica di un soldato alle prese con una guerra interiore, quotidiana e lacerante. Da una parte c’è l’amore segreto per il suo commilitone Andres ed il sogno di una vita libera con lui, dall’altra la compagna Marie con il loro bambino, l’abiezione di un rapporto di copertura, l’incubo di mani legate da costrizioni morali ed etichette sociali cucite sul bavero di un cappotto troppo pesante.
Woyzeck ha ucciso Marie, lo sappiamo fin da subito. Il corpo della donna è a terra, in una posa plastica, vestita con i vestiti di ogni giorno, non se l’aspettava, una gamba piegata in modo innaturale, sembra fratturata, si è spezzato qualcosa, ma non è l’arto, è qualcosa di più grande. Woyzeck è poco distante, nudo, sdraiato sulla pancia, soltanto un lenzuolo addosso a celare le sue forme e le sue verità. Tamburella le dita sul pavimento, alza la testa, è frastornato ma consapevole di quello che ha fatto, lo si sente dalle sue parole. Si mette in piedi, indossa l’uniforme con cui quotidianamente recita la parte del buon militare fedele a valori e tradizioni, abbandona il lenzuolo. Si apre così un lungo flashback che fa luce sulla vicenda: è una sfilata onirica ed inquietante di visi, voci, episodi e moniti che raccontano come si è arrivati al punto di partenza.
Un’interessante combinazione tra azione scenica teatrale classica e video conduce, infatti, lo spettatore nel viaggio verso gli inferi compiuto dal protagonista, unico personaggio che si muove sul palco senza schermi e filtri che ne modifichino la presenza. I volti e le fattezze delle figure chiave che Woyzeck incontra lungo il suo percorso sono proiettati su un telo chiaro disposto sul fondo della scena, in una successione che riesce a ricreare un mondo angosciante fatto di ordini, regole e sguardi giudicanti che parlano senza dire una parola. È un mondo in cui Woyzeck prova vergogna di essere come è, dove tutti lo disprezzano ed anche i clown ridono di lui. Non si assiste quindi solo alla narrazione di una vicenda, ma si entra nella testa del protagonista, in quel susseguirsi di immagini, visioni deformate e dialoghi frammentati tipico dei sogni e dei ricordi nella mente. “Ho bisogno di silenzio”, dice ad un certo punto il soldato sfinito, mentre dialoga con le voci registrate delle proiezioni. Soltanto Marie fa eccezione. La donna è infatti presenza scenica fisica e costante, seppure dietro al telo. Marie invero è sì una presenza ingombrante, il capro espiatorio su cui sfogare la frustrazione del soldato di non potere vivere alla luce del sole l’amore omosessuale sincero, a tratti ossessivo, per Andres, ma la complicità di fondo ed il legame con lei sono il lasciapassare nella società bigotta in cui egli vive e contro la quale ad un certo punto si rivolta. La compagna di Woyzeck diventa quindi il simbolo di tutto quello che è imposto ed ostacolo a tutto ciò che, come le relazioni omosessuali, è vietato o disapprovato e poco si addice alla virilità di un militare, esempio della rettitudine e dell’ordine più severi. È interessante vedere come la gelosia dovuta alle scappatelle della compagna, movente decisivo per l’omicidio nel testo originale, qui si trasforma in mero pretesto per il compimento di un atto che resta imperdonabile e condannabile qualunque ne sia la motivazione di fondo.
Il lavoro diretto da Mascitelli è, nel suo insieme, un buon lavoro ben congeniato. Nonostante la complessità di intreccio ed incrocio di linguaggi differenti, che richiede una soglia di attenzione alta dall’inizio alla fine per essere seguito adeguatamente, “Le mal du siècle” arriva, nei suoi intenti, allo spettatore ed il merito di questo va, senza dubbio, alla recitazione trascinante dei due interpreti - meritatissimi i lunghi applausi finali per Gabriella Carrozza e Mario Aroldi - e ad un impatto visivo e scenografico che colpisce e tiene vive tensione e curiosità.