La Merda: storia di “una piccola” e dei (suoi?) sogni di grandezza
Il parere dello spettatore attento: recensione a cura di Agata Saglia
Un sospiro, forse di sollievo, forse sfinito e rassegnato. Codini da bambina di un manga giapponese. Rossetto rosso da donna. Viso che si deforma in modo quasi plastico appena presa la parola. L’unica attrice sulla scena è nuda, come nudi sfilano uno dopo l'altro i suoi pensieri. Comincia un flusso di coscienza che è come uno schiaffo dato in pieno volto a chi lo guarda e lo ascolta.
"La Merda", spettacolo in scena al Teatro del Cerchio sabato 9 marzo, ha debuttato nel 2012 e, se continua ad essere richiesto in Italia ed all'estero con grande successo di critica e pubblico, un motivo c'è.
Vincitore del Fringe Festival di Edimburgo, del Fringe First Award for Writing Excellence per la scrittura, tradotto in inglese, in greco, danese, ceco, spagnolo, gallego, portoghese brasiliano, norvegese, svedese e francese, "La Merda" è un monologo crudo, schietto, vero e per questo a tratti disturbante, sulla condizione umana e femminile, raccontata, in tutta la bassezza a cui la società moderna sembra piegarla, dalle parole di Cristian Ceresoli, fattesi corpo grazie ad un'eccezionale interpretazione di Silvia Gallerano.
Corpo. Mai quanto in questo caso uno spettacolo si regge su un corpo.
È con il proprio corpo senza veli che l'attrice sta sola, microfono in mano, seduta su uno sgabello che la eleva al centro del palco vuoto. Ricorda una bambola da esposizione su un piedistallo, a cui una bambina ha tolto i vestiti. Come ogni bambola ha una storia di mani che hanno giocato con lei, ma come donna può raccontarla.
È altresì come corpi che ci muoviamo ogni giorno nel mondo. Compiamo scelte spesso contrastanti con la nostra natura, scendiamo a compromessi che fanno perdere l’identità autentica, in favore di un'altra richiesta da una società che si regge su aspettative, immagini e valori preconfezionati ed annullanti che, il più delle volte, conducono ad un'auto umiliazione. Il coraggio di vivere ed essere se stessi si trasforma in uno stringere i denti per farcela da soli e per forza, in una conformazione a codici e comportamenti dettati da non si sa nemmeno chi, anche quando è evidente che una certa strada è in contrasto, non solo con le inclinazioni della propria persona, ma con il rispetto più basilare per l'esserci ed essere qui in quanto semplici viventi. Si battono così strade già battute da altri e lo si fa in fretta, si deve arrivare non si sa dove, ma dove l'importante è arrivare ad ogni costo. Si soffoca talmente bene la spinta propulsiva interiore che condurrebbe a percorsi differenti da quelli standard, che non solo non la si ascolta, ma nemmeno la si sente più, per poi metterla a tacere con più decisione se tenta di gridare, in un moto di ribellione al contrario.
In un continuo fluire di sfaccettature e modulazioni differenti, con un'abilità ed un magnetismo che rapiscono e, a tratti, fanno dimenticare il nudo sulla scena - che non è solo funzionale ma necessario alla resa efficace della rappresentazione - la voce di Silvia Gallerano non pare avere come primo intento la ricerca di una provocazione, ma sembra piuttosto registrare uno stato di realtà: la reazione è lasciata a ciascuno spettatore con il proprio bagaglio di osservazioni, esperienze e sensibilità. Quello del monologo, infatti, è un corpo di donna che fa cose perché è normale e comune farle, in una concatenazione di azioni e conseguenze sperate, quasi fossero premi per essersi comportata come conviene. In un flusso poetico ma al tempo stesso nauseante, l'attrice in scena, come stesse facendo un provino, racconta la storia di “una piccola” - così si definisce - che vuole dimostrare di essere adatta ad una grande parte, anche con le cosce grosse, anche se non è perfetta e magari nemmeno intelligente come lei considera alcune donne di spettacolo che intervengono ai talk show in televisione. Si scusa quando dovrebbe insultare. Ripercorre i dialoghi e vicende nei dettagli più inutili e minuziosi come un personaggio noto intervistato da un giornalista di cronaca rosa. Lascia che le cose le accadano e non sceglie come e se farle accadere. Asseconda le voglie e le pulsioni degli uomini che incontra quasi fosse un fazzoletto usa e getta, perché “Non è che puoi dire di no”, “Ci vuole del coraggio” e comunque “Se una cosa ti fa schifo ti ci puoi abituare”. Come una macchina fotografica, fissa immagini e ricordi, arricchiti poi di racconti reali e situazioni immaginate, sogni di gloria, desideri di successo stereotipati. Non importa quello che si ha da dire ma fare comunque parlare di sé ed essere riconosciuti. Pochi guizzi di consapevolezza ed eversione violenti ed inaspettati, vengono ricondotti a quella dinamica ordinata di sacrificio e dedizione, diventata ormai strutturale per la protagonista: si ingoia quello che serve per entrare a fare parte del “mondo che conta” e, qualora si dovesse raggiungere la saturazione, espellendo tutto come in un’esplosione improvvisa ed incontrollata, si raccolgono i pezzi e li si inghiotte di nuovo.
Nella messinscena non c’è musica, fatta eccezione per il nostro inno nazionale che, come una litania, viene cantato, recitato e citato a più riprese da Silvia Gallerano nel corso del suo narrare. Non c’è soltanto un senso patriottico di appartenenza, ma una vera e propria fede nei valori che le ha trasmesso il padre, attraverso una mitizzazione delle camicie rosse garibaldine. Ricorrente è il riferimento alla loro tenacia nel volere unificare l’Italia costruendola così com’è. È solo con impegno e sacrificio acritici e facendo “quello che serve” che si può vincere, anche se non è ben chiaro perché e che cosa si vinca. Come una bambina che ascolta gli insegnamenti dei genitori facendone la propria bandiera, la protagonista segue con obbedienza infantile e fiducia ingenua i precetti che le sono stati inculcati, in un interessante parallelismo tra padre, padri della Patria e la nostra Italia politica e sociale. Non conta se i meccanismi che la regolano sono maschilisti, non conta il prezzo da pagare, l’importante è che la società sia orgogliosa e soddisfatta di me e adempiere alle sue richieste ed ai miei doveri.
"La Merda" è uno spettacolo che tocca nervi scoperti, suscitando nello spettatore un dipanarsi di dubbi, prese di coscienza, fastidio che deborda e risate che provano ad esorcizzare una fotografia brutale, chiara e netta della realtà che Cristian Ceresoli ha sentito l'urgenza di raccontarci.
“La Merda” è una parola che fa ormai parte del nostro linguaggio comune e non suscita più alcuna reazione, al pari di tanti stereotipi, abitudini, atteggiamenti, valori e convenzioni sociali talvolta discutibili.
"La Merda" è un monologo che parla e fa parlare, da vedere e da ascoltare, aperto alla possibilità di ammettersi che ogni donna, con la propria nudità, ed ogni uomo, che con quella nudità ha, in qualche modo, a che fare, ne sia innegabilmente parte, chi più, chi meno. Non è forse ora di decidere come?